venerdì 26 marzo 2010

domenica 7 marzo 2010

venerdì 26 febbraio 2010

venerdì 19 febbraio 2010

nella mia stanza



Candele consumate. Bottiglie di birra senza birra. Una lampada senza genio. Frigo vuoto. Tutto finisce nella mia stanza. Solo il posacenere è sempre pieno. Progetti abbandonati nell’angolo dietro al letto, sogni lasciati sulla scrivania a prendere polvere. Anche gli scheletri sono scappati dall’armadio. Le uniche certezze sono i poster. E la cesta dei panni da lavare. Ogni volta che voglio fare il bucato, le lavatrici sono occupate dai lupi mannari.

Fogli bianchi aspettano di essere abitati dai colori, mentre opere dadaiste appese al muro ridono di loro. Vicino alla porta, una cartina fisica della Germania. Non ho mai sopportato le cartine politiche, ogni stato colorato diversamente e poi i colori più brutti toccano sempre agli stati meno “importanti”. E a separare non è la distanza, ma una linea. Ogni volta che la guardo smetto di puntare al cielo. C’è così tanto da vedere in terra.

Poco a sinistra, l’interruttore della luce. Ho sempre pensato che fosse un po’ il punto g della stanza, come se ogni volta che spegnessi le lampadine, le pareti godessero. Non riesco neppure a ricordare con esattezza l’intensità della luce. Dentro il lampadario bianco, si possono notare stormi di moscerini morti durante la loro battaglia per il sole. Certe volte credo che lasciando la luce spenta ne abbia salvati parecchi. Altre volte invece penso di avergli negato il sogno di raggiungere il sole.

Il letto. Il punto dove credo di aver infranto tutti i comandamenti, di aver saziato tutti i sette peccati capitali più qualcuno provinciale. Le lenzuola azzurre strappate non so come in qualche incubo un po’ retrò. Al materasso duro come un libro di Bukowski ho dedicato più di un mal di schiena. La coperta terribilmente troppo corta l’ho maledetta in diverse occasioni. Il cuscino è stata la cosa più vicina ai miei sogni.

L’unica cosa che mi mancherà del bagno saranno le tendine della doccia. Spesso le ho considerate come il mio alter ego. Un muro così facile da abbattere, un muro sempre bagnato da acquazzoni di getti di doccia, un muro così superficiale. Non hanno mai adempito pienamente il loro compito, le mattonelle di terracotta del pavimento si bagnano sempre. Meglio così, lo straccio per terra non ce lo passavo mai.

Certe volte vorrei che non ci fosse la finestra, nella mia camera. Avrei una scusa per inventarmi un mondo.
Ho passato bei momenti in questa stanza. Davvero.

domenica 13 dicembre 2009

Cara xxxx

Ti scrivo da una stella vicino Orione che ho scovato per sbaglio l’altra notte. Schivo telescopi guardoni ed eccessi gravitazionali da dentro un cratere dove ho costruito una fortezza coi cuscini. Qui non c’è nessuno che mi odia e nessuno da odiare, quindi paradossalmente mi sento meno solo. Quando mi annoio, guardo la terra ma sono troppo lontano e non riesco a vedere nessuno, tuttavia sono ancora abbastanza vicino da ricordare ogni cosa. Un mondo soltanto non è altro che un acquario per pesci d’aria. So che potrebbe essere pericoloso affezionarsi troppo ad un sogno, ma almeno qua non ho più paura del buio.

sabato 12 dicembre 2009

Garmisch

La prima cosa che dici é che le montagne innevate ti ricordano pandori investiti da zucchero filato. La cosa é particolarmente vera se non fosse per il gelo che ci avvolge. Dovrebbero educare i bambini al freddo fin dalla tenere età. Il freddo climatico, il freddo emotivo, il freddo di un inverno dentro un freezer. I nostri legamenti paralizzati ci costringono a pose eterne da fare invidia ai Bronzi di Riace. Sappiamo benissimo che la critica alla ragion pura del vento ci ha reso ancora più deboli, e che non abbiamo vestiti adeguati alle scorribande di Eolo, che ci sputa neve in faccia, che si fuma metà delle nostre sigarette. Ma abbiamo vodka calda e tante speranze, e la solitudine ci ha già allenato a sopportare ogni tipo di ghiaccio. Col sorriso in bocca ti prendi gioco del silenzio con frasi insensate che mi piacciono da morire. Stiamo troppo larghi nella nostra camera, e ci dispiace di non soffrire di claustrofobia. Gli abeti ci proteggono dalla vista dell´infinito, dal bianco. E tu dici che siamo fortunati che non dobbiamo necessariamente ricordarci di respirare, che il corpo ci pensa da solo, perché abbiamo veramente tante cose da fare. Io tacitamente cerco di ricordare almeno una delle tante cose da fare, ovviamente invano. Il glüe wine é un bene di prima necessità qua, d´altronde un po´ come in tutta la Baviera. E tu sei un bene di prima necessità per me. Il cielo deve avere molta paura di noi, perché quando si é accorto che lo stiamo guardando é subito diventato pallido. Se stanotte non nevica, ci offrono da bere.

La notte nevica e non ci offrono da bere. Non importa. Beviamo vodka travasata in una bottiglia di sprite al limone e andiamo a stringere amicizia con qualche pupazzo di neve. Non vengono mai come appaiono nei cartoni animati; sono asimmetrici, più bassi, più impersonali. Siamo contenti quindi che non si specchieranno mai. Facciamo gli angeli della neve e la Siberia ci entra nelle mutande. Non riesco ad immaginare nulla di più climaticamente sbalorditivo. Immersi nella neve sembra di stare sdraiati su di una nuvola. Mi dici che sarebbe bellissimo se la neve fosse azzurra. Ma i colori sono una legge che non può essere sottoposta a referendum. L’indifferenza al calore di un cane da guardia ci toglie il sorriso. Lo spettacolo più triste degli ultimi tre mesi. Non esistono cose giuste da fare in questi casi. Solo possibilità. Se io fossi dio dormirei tutto il giorno. Sognerei tutto quello che non ho ancora creato.

mercoledì 2 dicembre 2009

Brussels

Tutto sommato siamo solo coincidenze. Mentre ci amiamo nei quartieri a luci rosse. L´indifferenza ci ha protetto da qualcosa di più intenso della pioggia. Forse siamo solo tristi; forse la nostra felicità si é infettata e dovranno amputarla; forse l´incantesimo che ci unisce é diventato magia nera. Solo Magritte potrebbe capirci a Bruxelles.
Mentre camminiamo i puffi ci spiano dagli angoli delle strade. Lo capiamo e stiamo al loro gioco.
“Andiamo a puffare sotto quell’albero?”

Dalle cuffie Billy Corgan ci sussurra “disarm you with a smile – and leave you like they left me here – tu breather in denil – the bitterness of one who’s left alone- I use to be a little boy – so old in my shoes – and what I chose is my voice – what’s a boy suppose to do – the killer in me is the killer in you, my love – I send this smile over to you”. Ho uno sfogo a forma di te sul braccio sinistro, ma solo per oggi. Cerco di ragionare col pancreas solo per cambiare punto di vista. Qualcosa va storto e non ci riesco. Ci idratiamo col Jack Daniels. A Les Marolles tutti parlano spagnolo, ma la nostra vida non è loca e scappiamo verso La Grand’ Place. Il centro della città è bello, come uno spigolo di paradiso al centro dell’inferno. Un centro tavola molto ricamato.

I grattacieli di vetro non sono belli come i castelli di vetro. L’unico problema è che i castelli di vetro non esistono.

sabato 17 ottobre 2009

Munchen

Abbiamo aggredito mattine. Divorato mezzogiorni di fuoco d’artificio con coltello e forcone. Aspettato qualche apocalisse nella supremazia di Marienplatz. Provato appetito per le nuvole, per il cielo, per la paura degli spazi chiusi. Monaco di mattina era una religione un po’ blasfema, una religione che non aveva nulla da predicare, una grande chiesa battezzata con la birra santa. C’era il sole e non volevi perdertelo e chi aveva gli occhiali da sole era per forza un vampiro. Alla stazione la globalizzazione ci ha investiti, ed eri triste di non sentirti spiazzata, di sentirti a casa. Siamo subito andati a perderci, a rimanere sbalorditi davanti a un palazzo, una panchina, un cartellone pubblicitario che non fosse di McDonald o Starbuck o Nivea. Ci siamo deturpati le speranze. Alle 14 vedevamo albe bellissime. E tramonti negli occhi dei passanti. Monaco era pulita. Monaco era gotica. Monaco era nostra. Nessuno ci aveva sorriso, così avevamo improvvisato gioia immotivata. Sembravamo malati di febbre gialla in mezzo alla folla. Ma quello che appariamo non è quello che siamo. Abbracciati da troppe linee di metro. Abbiamo sognato di annaffiare i girasoli di Van Gogh. Abbiamo dimostrato scientificamente di essere bellissimi. Tu inventavi filastrocche in un tedesco artificiale e sembri un teletubbies drogato. Io inventavo un mondo e sembravo mago Merlino. Sensazioni sieropositive ci perseguitavano. Non avevamo senso. In fondo non ne abbiamo mai avuto.

Ignari dei referendum per non braccare il cielo, siamo saliti più in alto di 99 metri e abbiamo salutato la rosa bianca e le streghe che erano tornate a volare sulla scopa dopo la fine dei bombardamenti e i burattini dell’orologio ubriachi. Dicevi che a Monaco la birra l’hanno scoperta prima del fuoco, che è più vecchia anche delle torri della Frauenkirche. Che all’Oktoberfest preferisci un circo però non abbiamo trovato nessun circo allora siamo andati all’Oktoberfest a farci schiacciare da tonnellate di delirio. Monaco e un incendio neroniano, Monaco capitale del movimento nazista, Monaco e gli atleti israeliani uccisi alle Olimpiadi. Ma quelle erano solo bugie tratte da una storia vera, e Monaco aveva bisogno dell’Oktoberfest. E noi avevamo bisogno di Monaco. Abbiamo imbrattato le pareti del nostro stomaco di malto d’orzo. “Chè un boccale di birra è un pasto da re”.

Ce ne andammo. Pensando alle zone per nudisti e ai poco più 6 mesi di comunismo che furono. Al sacro romano impero che non ci spaventava. E non ti ricordavi come fosse la prima fiera dell’elettricità di 127 anni fa. E non ricordavi nemmeno il tuo nome. Abbiamo fumato sigarette mentre dicevi che tutti qua fumano sigarette e i gatti non fumano sigarette solo perché non hanno il pollice opponibile per far funzionare gli accendini e allora io ho capito che tu eri ubriaca. Poi mi sono reso conto che tu quel giorno non eri a Monaco con me e che quindi avevo parlato da solo e che quindi l’ubriaco ero io. Il vento anziché accarezzarmi mi schiaffeggiava. Alla stazione ho cercato di evitare gli sguardi della gente e le pozze di vomito.

sabato 3 ottobre 2009

Nurnberg

Dall’alto del castello si sente il rumore delle luci della città. Dei santi che giocano a tombola. Degli gnomi nelle tue tasche che discutono di etica comportamentale. In questo momento pensiamo che ci servirebbe una qualche patente per non superare i limiti della fantasia. Che se ci buttassimo probabilmente voleremmo ma non ci va di togliere le nostre giacche. Ma non è importante, Norimberga è un bel posto. Qui anche i dannati ci augurano buona Pasqua, con tutto il cuore di chi non ha cuore. Norimberga città libera. Statue e fontane dark ci bramano. Scheletri, gli spettri del matrimonio, un coniglio transgenico. Norimberga e il risorgimento economico con l’industria di giocattoli. Il risultato sono vetrine con peluche che costano più di mille euro. Tu quando li vedi inizi a fare la finta capricciosa. Li voglio! Li voglio! Li voglio! Li voglio! Non sai ancora che alla fine il nostro shopping sarà solo un panino da Burger King.

La cosa più triste del mondo é una caramella scaduta, é più triste di mille funerali.

Albert Durer è il capostipite degli hippy. Ci piacciono i suoi capelli, sono meglio dei suoi quadri. E Medusa non si poteva pettinare perché gli animalisti l’avrebbero denunciata. Sarebbe stato poco carino. Mi ricordi che a Norimberga hanno inventato la vergine di Norimberga. Grazie al cazzo. Se l’avessero inventata su Mercurio si sarebbe chiamata la vergine di Mercurio. Ma non te lo dico, spero ci arriverai da sola. Ti offro una birra in cambio di un sorriso. Il nostro trattato di Norimberga è stato migliore. Ma poi ci gabbano stappando due Beck’s. Quando ci incamminiamo verso il castello il tuo cuore diventa una drum machine dei Nine Inch Nails. Io penso che sia una bella cosa, poi capisco che è solo per la salita inaudita che non finisce mai. E allora sbaglio tutto. Anche la metrica degli sbadigli. Dici che il nostro stile di vita è un ossimoro se rapportato ai nostri sentimenti. C’è del marcio in Danimarca.

Non saremmo mai voluti andare via. Ma alla fine ce ne siamo andati.
A Norimberga abbiamo conquistato il mondo. Un mondo. Tanto uno vale l’altro.

giovedì 24 settembre 2009

Augsburg

Questa mattina ci siamo alzati tardi e tu ti sei svegliata delusa perché pensavi di meritare qualche sogno extra per tutto il tempo che hai dedicato al sonno. Hai deciso allora che non avresti dormito più per il resto della tua vita mentre io mi stavo lavando con shampoo e un bagnoschiuma al kiwi comprati al discount per meno di un euro. Beviamo il caffè è leggiamo i fondi dalle tazzine che ci predicono come al solito soldi e fama, senza badare troppo al fatto che noi non li sappiamo leggere i fondi del caffè. I nostri stomaci blindati non hanno fame. Noncuranti delle diverse denuncie del fegato, beviamo birra fin dalla mattina, che tanto in Italia corromperemo qualche giudice. Dici che non abbiamo scelta che tanto non abbiamo l’acqua frizzante, e tu bevi solo quella perché le bollicine che scendono giù per la gola ti fanno sentire un piccolo cielo pieno di bolle di sapone. Ripeti che non abbiamo scelta dicendo “non abbiamo scelta”. Spiamo il mondo dalle fessure della serranda ancora abbassata, come fossimo guardando Richard Nixon fare una telefonata dal buco di una serratura, e il cielo è bianco come la schiuma che le nostre birre non hanno. Fa troppo freddo per non uscire. Alle cinque di pomeriggio già è buio e si accendono i lampioni e io penso che se avessi una lente d’ingrandimento potrei usarla all’incontrario e vedere le cose più piccole e vedere i lampioni rimpiccioliti e fare finta che siano stelle. La cosa non ti diverte per cui torniamo indietro per prendere le biciclette. Prendo in pieno un palo e ridi dicendo che ora le stelle le dovrei vedere davvero. Non so se quì la benzina costi di più o di meno che in Italia, così leggo i prezzi con curiosità, ma non ricordo quanto costi in Italia, e nemmeno tu lo ricordi, così spremiamo le meningi fino a farle sanguinare e alla fine ridiamo ancora per il nostro insuccesso. Commentiamo l’architettonica della città con tutto lo spirito critico che non abbiamo e arriviamo a Konigsplatz e tu dici che Londra te la immagini così. Io ti dico che Londra non è così e tu vuoi tornare a casa. Facciamo una gara a chi va più veloce, un semaforo diventa arancione e tu mi dici che dobbiamo riuscire a passare prima che diventi rosso. Ce la facciamo e ci adagiamo sugli allori e sulla merda di piccione.

Il giorno seguente mi svegli felice per aver sognato un servizio del telegiornale in cui si parlava di un incidente aereo tra aquiloni, mentre io tacitamente penso che fosse un servizio di studio aperto, così andiamo a comprare birre di scarsa qualità, mentre tu dici che non ha senso bere birre di scarsa qualità in Germania. Cuciniamo una carne molto simile a quella del kebab su pentole che non abbiamo lavato e quando te lo faccio notare sentenzi che nemmeno io mi sono lavato. In quel momento vorrei regalarti il mondo, così vado a comprare una bottiglia di vodka liscia. Ascoltiamo Non Voglio Che Clara, Le Luci Della Centrale Elettrica e Aphorisma mentre sconvolgiamo la nostra realtà a cannonate etiliche. Augsburg è troppo larga per noi. E anche troppo pulita, aggiungi. Anche i cani qua pagano le tasse. E riciclano all’estremo. E io penso in quale secchio va buttata la carta stagnola, la cenere, una spugna, le setole di uno spazzolino da denti, un cuore. Scherzi sul fatto che il mio cuore lo potrei buttare nel cesso, ma che devo averci già buttato il cervello per non esserci arrivato da solo. Ci amiamo. Addobbiamo un po’ il monolocale con bottiglie di birra vuote, cartoline che si trovano gratuitamente un po’ ovunque, sottobicchieri, ritagli di giornali e di un gossip che non conosciamo. Ancora non ho mai usato gli acquarelli che ho comprato il primo giorno. Usciamo per andare a vedere qualche torre gotica. In molte altre città della Baviera ce ne sono di più belle. Augsburg è piena di altre torri in stile mezzo arabo, ma quelle non ci affascinano molto, e poi non siamo neppure convinti che sia uno stile mezzo arabo. Passeggiamo tra edifici bidimensionali facendo del nostro meglio per perderci. Il freddo potrà anche paralizzare i tram, ma di certo non placa l´insoddisfazione dei vecchi barboni alle solite panchine. Dici che fumo troppo allora io mi accendo una sigarette e tu mi accusi di essere un bambino e io rispondo magari. “Magari”. Non ho ancora visto nessun fioraio ad Augsburg. Andiamo al centro commerciale a vedere quante cose non ci possiamo permettere e scopriamo che esistono troppi vestiti che valgono più delle nostre vite così sputi su una giacca e sorridi e siccome io non sputo dici che sono un borghese e allora anche io rido. Uscendo dal negozio vediamo Orione e pensiamo a casa e mi domandi come è possibile che le navi di Pierino erano carta di giornale ma eppure sono andate via e mi domandi cosa vuol dire onirico e io rispondo che tu sei onirica e ci abbracciamo.

Abitiamo al secondo piano di un grattacielo e cazzo abbiamo una vista di merda, ma non importa perché abbiamo fantasia e soprattutto possiamo uscire quando vogliamo. Nevica ma nonostante il clima i lavoratori continuano a darci dentro con i martelli pneumatici e polverizzano la nostra voglia di vivere. Non ci siamo mai mancati. E ci stiamo un po’ salvando la vita a vicenda, in questo studentato idiota. Forse stiamo troppo ancorati a chi siamo veramente. Forse ti indosso troppo come un salvagente, ma almeno qua ad Augsburg sto bene. Allora mi scrivi su un foglio lüsternheit. Ma io vedo solo una Ü che mi sorride.